Le voci dell'islam contro l'estremismo
1 settembre 2014
Intrecci politici e militari, spesso opachi, hanno consentito ai militanti estremisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (oggi identificati con la sigla Is) di occupare parte della Siria e dell’Iraq con l’obiettivo dichiarato di fondare un Califfato compiendo stragi, soprattutto tra le minoranze non islamiche (cristiani, yazidi e altri) e tra gli stessi musulmani. Tuttavia molte voci nell’islam sunnita si sono levate contro l’Is, anche se non sempre messe in risalto dai media, non solo in Occidente, ma anche in Paesi musulmani più conservatori.
Tra questi spicca il Gran muftì dell’Arabia Saudita, lo sceicco Abdulaziz Al sl-Sheikh, che il 19 agosto ha definito sia l’Is sia al Qaeda «nemici numero uno dell’Islam» e non appartenenti in alcun modo alla fede comune. La corrente wahabita che sostiene il regime saudita condivide alcune posizioni dottrinali dei terroristi, ma respinge i metodi violenti e il pericolo di destabilizzazione che rappresentano. Si ritiene che molti sauditi si siano uniti ai ribelli in Siria e Iraq e non è chiaro quanto la posizione dei religiosi wahabiti possa influenzare le loro scelte.
Anche importanti autorità dei principali Paesi dell’area hanno condannato le stragi, a partire dal Gran muftì di al-Azhar, Egitto, Shawqi Allam, che ha denunciato l’Is come una minaccia per l’islam. Il responsabile degli Affari religiosi in Turchia, Mehmet Görmez, ha affermato che: «La dichiarazione fatta contro i cristiani è veramente terribile. Gli studiosi islamici hanno bisogno di concentrarsi su questo perché l’incapacità di sostenere pacificamente altre fedi e culture annuncia il collasso di una civiltà».
Sul piano ufficiale, sia l’Organizzazione per la cooperazione islamica, che riunisce 57 Paesi, sia la Lega araba, si sono espresse contro i crimini commessi nelle scorse settimane in Iraq, parlando esplicitamente in difesa delle minoranze cristiane e degli yazidi. E inoltre non sono mancate le condanne da parte delle autorità delle comunità islamiche negli Usa, in Gran Bretagna e Francia, specialmente dopo l’assassinio del giornalista James Foley.
Chiara ed esplicita è la posizione dei musulmani in Italia. A fronte di una quarantina di mujaheddin di provenienza italiana partiti per la jihad in Siria e Iraq, persone di cui ha ampiamente parlato la stampa in questi giorni, in un appello del 12 agosto contro le guerre, l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia che raggruppano 1,2 milioni di fedeli, ricorda che «il rispetto e la protezione della Gente del Libro (i cristiani e gli ebrei) e, in generale di tutte le popolazioni che vivono in un Paese o territorio governato dai musulmani è un dovere ineludibile di qualunque potere che si richiami all’Islam». L’Ucoii aggiunge che quando una forza che affigge insegne islamiche viola tutte le regole morali del conflitto, non può essere giustificata o sostenuta da alcuna referenza religiosa.
Davide Piccardo, responsabile del Coordinamento associazioni islamiche di Milano (Caim) conferma a Popoli.info la posizione dei musulmani nel nostro Paese: «Quanto sta accedendo in queste settimane in Siria e in Iraq, per effetto dell’avanzata dell’Isis, sono aberrazioni. In questo frangente noi siamo non solo con i cristiani iracheni e siriani, ma con tutte le minoranze religiose vittime della violenza».
I musulmani italiani ricordano che anche 16 ulema sunniti di confraternite sufi di Mosul sono rimasti vittime dei fanatici dell’Is così come gli imam di alcune grandi moschee, mentre altri musulmani, tra cui i peshmerga curdi, fanno fronte all’avanzata degli estremisti.
Francesco Pistocchini
© FCSF – Popoli
Dal sito di Fulvio Scaglione, giornalista vice-direttore di Famiglia Cristiana
26 agosto 2014

“Sì, ci sono stati gesti di solidarietà da parte di musulmani verso i cristiani perseguitati. Anche a Mosul: quando siamo stati cacciati, alcuni hanno accompagnato fuori città delle famiglie cristiane che erano state spogliate di tutto. Ma abbiamo un’amarezza grande nel cuore, perché sono stati ancor più numerosi i casi in cui i nostri vicini di casa, le persone con cui vivevamo e spesso dividevamo il pane, sono stati i primi a saccheggiare le nostre case e prendersi le nostre cose”.
Da Alqosh, la cittadina del Kurdistan in cui fu parroco, la voce di monsignor Amel Shamoun Nona, 46 anni, arcivescovo cattolico caldeo di Mosul, arriva con una vago tremolìo. Ma è la linea, non il suo tono, che resta invece sereno e deciso. Come ci si poteva aspettare da un vescovo che arrivò a Mosul, centro con 1.200 famiglie di cristiani, nel 2010 dopo che il suo predecessore era stato rapito e assassinato e subito dovette affrontare una serie di omicidi contro i cristiani. Il primo a essere ucciso fu il padre di una ragazzo che in quel momento stava pregando in chiesa proprio con lui. E che proprio in quel momento decise di condensare il motto del proprio episcopato in una sola parola: speranza.
I cristiani in fuga
“In questi giorni”, racconta monsignor Nona, “il mio primo impegno è girare per tutti i villaggi del Kurdistan dove si sono raccolti i cristiani in fuga proprio per far sapere loro che non sono soli, che non devono perdere la speranza. Cerco di capire i bisogni e, naturalmente, di distribuire gli aiuti che ci sono arrivati dal Vaticano e da altre organizzazioni internazionali”.
Quali sono le necessità più impellenti di queste persone?
“E’ impossibile fare una classifica dei bisogni. Sono migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini ai quali è stato tolto tutto, persino gli anelli di matrimonio o le medicine indispensabili per la salute che cercavano di portare con sé. Qualunque cosa venga in mente, a loro manca: dall’acqua per bere e lavarsi al cibo alle coperte per dormire. Tutto”.
C’è solidarietà tra le diverse chiese del Paese?
“Per fortuna sì, moltissima. Questa è una zona di presenza caldea e tutte le diocesi si sono mobilitate per dare rifugio e assistenza ai profughi, cristiani e non. E’ uno sforzo collettivo ammirevole, che procede senza sosta da quando è partita l’emergenza”.
Per quanto stano facendo i miliziani dell’Isis, Lei non ha esitato a parlare di “crimine contro l’umanità” e di “pulizia etnico-religiosa”…
“Certo. E’ incredibile che nel 2014 possano ancora succedere certe cose, mentre il mondo resta a guardare. Sa qual è la cosa più terribile? Visitare le famiglie dei profughi, essere fermati e, soprattutto da vecchi e bambini, sentirsi chiedere: ma che succede? Perché ci fanno questo? Che cosa abbiamo fatto di male? I giovani perché non riescono a scorgere una prospettiva per il futuro. Gli anziani perché dal 2003 si confrontano con una condizione di pericolo e persecuzione a cui non riescono a sottrarsi. La speranza resiste proprio perché non sono soli, perché ci sono persone che si occupano di loro, che fanno sentir loro che c’è ancora qualcuno che gli vuole bene”.
Lei conosce la lettera di papa Francesco a Ban Ki-moon, segretario generale dell’Onu. Pensa che un intervento dell’Onu sarebbe utile in questa situazione?
“Certamente sì. Anzi: è importante che questo intervento avvenga e avvenga presto. La lettera del Papa ci dà energia e speranza, ovviamente, ma noi vorremmo che tutti i cristiani del mondo mostrassero solidarietà con i loro fratelli iracheni, senza sembrare “timidi” nei confronti di questa immane tragedia. Come peraltro auspicato anche dall’appello del nostro Patriarca”.
Che dire di quanto succede a Baghdad? L’ex premier Al Maliki sembra essersi fatto da parte, a favore del nuovo premier Haider al Abadi.
“La situazione a Baghdad è complicata ma non irreparabile. L’importante, se davvero vogliamo salvare il Paese e dargli un futuro, è che ora tutti collaborino col nuovo premier, dimenticando gli interessi di parte”.
In Kurdistan, dove finora i peshmerga hanno resistito al dilagare dall’Isis (Islamic State of Iraq and Syria, lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria), c’è preoccupazione?
“Ce n’è stata molta fino a qualche giorno fa. La domanda che tutti si facevano, magari nel chiuso del proprio cuore, era: riusciremo a resistere? La fiducia ha cominciato a crescere quando sono partiti i primi bombardamenti americani”.
Che notizie ha di Mosul, la sua arcidiocesi? Nessun cristiano è rimasto? Che cosa succede alla città?
“Mosul, purtroppo, è stata “ripulita” da tutti i cristiani, sono scappati tutti. Le notizie che arrivano dicono che la città è al collasso, le attività sono quasi tutte bloccate. Le proprietà dei cristiani sono state requisite, i luoghi di culto e le strutture della Chiesa cattolica abbattute o destinate ad altro uso. Come il mio vescovado…”.
Che cosa ne hanno fatto?
“E’ diventato il quartier generale delle milizie dell’Isis”.