Questo Calendario è pensato per essere un piccolo aiuto ad affacciarsi con rispetto alla fede dell'altro , attraverso le feste che ne scandiscono i ritmi e gli eventi.
Un invito quindi ad accogliere la preghiera dell'altro, così come Dio accoglie le preghiere che salgono a Lui da ogni parte della terra.
Il tema che scandirà i mesi del 2025 sarà Testimoni di Speranza.
Testimoni di SPERANZA
La «speranza», una delle virtù teologali (insieme con la fede e la carità), è davvero la sorella minore delle tre. Non raramente è relegata in un angolo della riflessione e della pratica della vita cristiana e se ne parla quasi estraendo l’ultima cartuccia che possa far fronte all’ineludibile forza della morte. Ne consegue che nel linguaggio comune dei credenti – praticanti o meno – l’appello alla speranza ha il sapore di un’ultima spiaggia, possibilmente da evitare nei giorni operosi e sereni, cioè nei giorni che tutti desiderano. La speranza può ridursi a questo? Una piccola riflessione sul termine non manca di fascino.
In latino speratus è il fidanzato e sperata è la fidanzata, cioè coloro che guardano al futuro con fiducia, anzi lo costruiscono con passione e lo percepiscono, alla vigilia delle nozze, gravido di promesse. Sicché la speranza non è una questione di ultima spiaggia, ma di prospettiva per la vita nella sua pienezza.
Se andiamo poi all’ebraico, la lingua nella quale è scritto l’Antico Testamento, il verbo «sperare» rimanda alla radice qawah, termine che significa “corda”. Sperare vuol dire essere tesi come una corda. Ma una corda per essere tesa deve essere tirata da due parti, quindi sperare vuol dire essere in tensione tra due punti fermi, uno a cui ci si aggancia e l’altro che tira: Dio e l’uomo.
L’invocazione che chiude l’Apocalisse, quindi l’intero Nuovo Testamento e l’intera Bibbia, recita: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). Questa invocazione designa perfettamente l’idea cristiana di speranza. Si invoca il ritorno di colui che è già venuto. La speranza cristiana, dunque, non è caratterizzata dall’incertezza propria di ogni umano e naturale sperare: essa è attesa. Quest’idea è perfettamente conforme al verbo ebraico qawah, cioè all’immagine della corda. La speranza nella concezione ebraico-cristiana non fiorisce unicamente dal desiderio, ma corrisponde all’essere legati per mezzo di una robusta corda, ad un “Altro” da sé. Per questo nel cristianesimo la speranza diventa pratica di vita nella forma ad essa più propria, che è quella della perseveranza. Questo è detto a chiare lettere da Paolo: «Nella speranza siamo stati salvati»; poi aggiunge: «Se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25). La speranza si realizza dunque come esercizio e pratica della carità: «Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore. Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera.
Condividete le necessità dei santi; siate premurosi nell’ospitalità» (Rm 12,11-13).
Dalle parole di Paolo risulta evidente come la speranza cristiana sia radicata fondamentalmente nella fede. La speranza, dunque, da un lato presuppone la fede, dall’altro la manifesta. Essa poi si esplica praticamente nella forma della perseveranza. È la speranza delle vergini sagge che non dubitano minimamente che il Signore verrà, solamente non sanno quando. Esse si tengono pronte, preparate a ogni momento (cfr. Mt 25,1-12).
Nel cristianesimo sperare vuol dire durare: essere fedeli fino alla fine, ma soprattutto fedeli in ogni momento del tempo, certi dell’esito. Lo esprime con icastica chiarezza Efrem il Siro, ammonendo ogni credente: «Poiché non conosce l’ora / si fa vigilante ad ogni ora».
Spesso però la nostra speranza non è così marmorea. Essa conosce dubbi, fatiche, sacche di vuoto e per questo diventa voce che invoca e si affida, chiedendo la grazia di non lasciarsi scoraggiare.
Nel tempo dell’attesa occorre attingere alla Sacra Scrittura per tenere desta la speranza (cfr. Rm 15,14); le Scritture chiedono umiltà e perseveranza, ma aprono un varco sul mistero stesso di Dio. Ed è proprio questo legame che dona all’uomo la grazia di non vedere i suoi giorni sfilacciarsi, ma sostenuti e tesi verso quell’amore che nulla, nemmeno la morte, potrà spezzare.
don Matteo Crimella