Questo calendario vuole essere un aiuto ad affacciarsi con rispetto alla fede dell'altro attraverso le feste che ne scandiscono i ritmi e gli eventi, un invito ad accogliere la preghiera dell'altro così come Dio accoglie le preghiere che salgono a Lui da ogni angolo della terra.

Calendario 2016 Copertina

Aprire un calendario nuovo, o imbattersi nella prima pagina di un nuovo calendario e trovarci una parola sulla speranza non è forse una piacevole co-incidenza?
Cioè che la speranza incida il tempo che ci si prospetta, e che il tempo incida in noi la speranza… parliamo di una bottega in cui si co-incide il legno del tempo e delle vite per farne opere d’arte.
La mano che incide non lo fa a caso, segue un progetto, e deve rispettare le fragilità e le linee del legno, perché questo non si rompa, allora ne scaturisce un’opera.
Ecco questo calendario nelle pagine ancora intonse di un nuovo anno, porta una o chissà quante promesse: il legno del tempo, si apre di fronte alla mano che vi può incidere qualcosa di nuovo. È un materiale ancora nuovo, guardatelo lì: 12 pagine con nomi di giorni, mesi, festività, e tutto è ancora intonso!
Deve ancora iniziare, deve ancora prender forma, anche se certamente ha già delle venature, fragilità e potenzialità da rispettare….
Ecco allora sfogliamo queste pagine, lasciamo che le nostre dita sentano il tocco di un foglio sottile che contiene secondi minuti giorni settimane… diamo un’occhiata fugace alle feste ebraiche cristiane musulmane che segnano il tempo di tante persone sparse per il mondo con culture usi costumi lingue tradizioni così diverse…
Tutti riuniti in un solo calendario, tutti al lavoro sullo stesso pezzo di legno che si chiama tempo, anno 2016, tutti nella stessa bottega che si chiama mondo…
Ogni giorno celebreremo il silenzio della sera, tutti; e ogni mattina sarà lo stesso sole a consegnarci la giornata.
Allora cosa ne facciamo di queste pagine? Lasciamo che altri decidano per noi? Lasciamo che sia il passato a schiacciare queste pagine imponendogli le sue consegne?
O possiamo muover la mano e lasciare qualche segno su questo morbido legno del tempo?
Per chi crede nel Dio di Abramo Isacco Giacobbe, il tempo non è un legno lasciato al caso, ma riposa nelle mani di un sapiente artigiano, Dio.
Qui è la radice del viaggio di Abramo, che contro ogni speranza crede, e non rimane deluso. Qui riposa la quiete di chi si fida del sapiente artigiano divino: non abbandona l’opera delle sue mani!
Speranza diventa dunque il modo di plasmare il nostro tempo: il mondo e il tempo sono frutto voluto, di un Dio sapiente che non abbandona l’opera delle sue mani.
La speranza credente non è dunque frutto di un vuoto ottimismo, ma un atteggiamento solido e necessario di chi sa che il tempo e la storia non sfuggono a Dio. Se la vita è un suo dono, ad ogni momento nasce un bimbo che è frutto della Sua fiducia in questo mondo, ad ogni momento si aprono fiori e nascono nuovi animali, piante, e tutto ci dice che alla Vita e alla sua Fonte il mondo gli interessa!
Tutta la storia biblica dell’Antico Testamento ci rimanda alla presenza di Dio, che anche nei casi di più brutale e violento abbandono della relazione con lui non viene meno alla sua benevole disposizione nei confronti degli uomini, deciso una volta per tutte: «Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra»!
La speranza dei patriarchi, del popolo eletto e di ogni suo membro, è un faro che penetra nel buio della notte, di ogni notte, di ogni densità oscura, perché solida è la fonte da cui la luce sgorga: il magma incandescente della presenza vicina e inafferrabile di un Dio provvidente.
Chi ha conosciuto la presenza di Dio, o anche un suo fugace barlume non può venire meno all’impegno della speranza. Sarebbe schiacciare la vita nel punto di contatto dei piedi con la terra, rinunciando a qualsiasi sguardo verso l’altro, verso il cielo, verso l’ambiente intorno. Sarebbe rinunciare a Dio stesso da cui il mondo viene e a cui torna.
Il Cristo ribadisce questo atteggiamento amoroso dell’artigiano divino verso i suoi materiali, il mondo e la sua storia: il mondo è una bottega preziosissima: il Padre lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito! E proprio nel Figlio tutto, tutto il mondo, tutto il tempo viene riconciliato, non c’è spazio per qualcosa al di fuori del suo interesse! Dio non abbandona, il suo sangue è versato «per tutti», non ci sono residui di mondo al di fuori dell’interessa dell’Artigiano...
La speranza diventa dunque un’esigenza di fede radicale. Rinunciare alla speranza diventa un atto consapevole di abbandono del punto di vista di Dio.
La Sura 18 detta “della Caverna” (in arabo Al Kahf), è particolarmente preziosa, tanto che se ne raccomanda la lettura ogni venerdì. In essa vi si trovano quattro storie, la prima delle quali narra di 7 giovani che per sfuggire la persecuzione si rifugiano in una caverna, in cui si addormentano e Dio li custodisce con un sonno di 309 anni, per poi restituirli alla vita, fuori dalle grinfie dei persecutori. La vicenda (la cui prima ambientazione pare essere l’Efeso pagana da cui 7 cristiani scappano) presenta la presenza provvidente di Dio, che custodisce i suoi, ed è capace di farlo con mano potente e discreta al contempo, che rompe insidie apparentemente invincibili, e apre prospettive inaspettate. Non ci sono vicoli chiusi all’azione di Dio.
Il credente appartiene a un orizzonte che non gli è completamente disponibile: anche nelle situazioni più assurde Dio può aprire percorsi inaspettati, e quand’anche dovessero passare per la morte, rimangono percorsi di vita.
Dio non è il Dio dei morti ma dei viventi, e la speranza è atteggiamento vitale di questa consapevolezza di fede. Buon anno!
 
                                                                                                                fr Paolo Raffaele Pugliese, ofm cap
 
 

Questo calendario vuole essere un aiuto ad affacciarsi con rispetto alla fede dell'altro attraverso le feste che ne scandiscono i ritmi e gli eventi, un invito ad accogliere la preghiera dell'altro così come Dio accoglie le preghiere che salgono a Lui da ogni angolo della terra.

L’ACCOGLENZA

p. Claudio Monge op

 

L’Oxford Dictionary l’aveva premiato come neologismo del 2013, lo Zingarelli, a distanza di un anno, lo certifica come vocabolo di uso comune per il 2015 che inizia. Stiamo parlando del termine selfie, usato dagli utenti dei social per indicare l’abitudine di posare davanti allo smartphone o ad una webcam, per un auto-scatto da pubblicare online. C’è chi l’ha definito l’ultimo altare alla vanità o anche l’estrema frontiera del narcisismo tecnologico. Indipendentemente dal fatto che ci sono anche i selfies di gruppo e che Narciso quando si specchia nello stagno è convinto di vedere un’altra persona e non se stesso (per questo si innamora), ci pare che questa moda dilagante esprima più una dimensione onanistica che narcisistica: il bisogno assoluto di apparire come forma dell’esistere che però prescinde dall’incontro con l’altro. Il farsi ritrarre da qualcun altro, implica già di per se stesso una forma di socialità, significa accettare di essere rappresentati attraverso lo sguardo altrui: premessa ad un incontro possibile e appello ad osare l’accoglienza. Questa “accoglienza”, nozione oggi fortemente contestata più che affermata nella sua stringente attualità esistenziale, è, in realtà, una sfida non solo economica o politica ma anche spirituale, in società complesse dalla difficile coabitazione. La stessa condizione permanente di “esodo esistenziale”, provocata dalla precarietà del vivere in tempi di crisi, suscita una domanda pressante: come conservare la speranza in tempi avversi? Sicuramente, questa speranza non può esistere se non è prima di tutto sostenuta dal riconoscimento di una dignità umana fondamentale, perché nessun essere umano, dal precario di un sistema economico perverso al migrante alla ricerca di un lido dove approdare, può essere genericamente ridotto alla “massa dei dannati senza volto della storia”, a un mero dato statistico. La “selfie cultura” tende a svuotare il peso esistenziale dell’altro riducendolo a semplice cornice, a presenza accidentale a supporto dell’affermazione di se stessi: ma senza l’altro io non sono! Ecco perché la pratica dell’accoglienza, prima di tutto, riorganizza in modo nuovo la stessa comprensione della nostra identità individuale, come ci ricorda fin dal suo incipit la Scrittura:  Dio fece uscire dall’Adam (che non è l’uomo come erroneamente tradotto, ma “il terrestre” che non è ancora né uomo né donna) la parte femminile, per darle, per differenziazione, una esistenza propria (della quale inizia a godere per la prima volta anche il maschio: dall’Adam all’Isch, distinto dall’Ishshâ; cfr. Gn 2, 18-25). L’Isch, per ritrovare la sua pienezza, la sua totalità, resistendo alla tentazione di riappropriarsi di colei che è ormai differente, dovrà uscire da sé e andare al suo incontro, offrendosi in dono ed accogliendo il dono libero dell’altro. L’altro, l’estraneo che spesso e volentieri è anche “straniero” e, in quanto tale, considerato come una minaccia quando non un vero e proprio nemico, non può scomparire dal nostro orizzonte e continuerà a sfidarci per un’accoglienza che sa opporsi ogni ostracismo pur rispettando anche le differenze. La tradizione ebraica ci ricorda che solo coltivando la memoria del nostro stesso essere «stranieri e di passaggio» (cfr. Gn 23,4; Es 23,9; Lv 19,34; Dt 10,19) possiamo praticare l’ospitalità come un dono gratuito da offrire, dopo aver tanto desiderato di beneficiare dell’accoglienza di Dio (« O Signore, chi dimorerà nella tua tenda? Chi abiterà sul tuo santo monte?... » ; Sal 15,1). Per un pio ebreo, l’accoglienza resta una istituzione morale (una Tzedakah, lett. rettitudine, equità e giustizia) e un’imperativo religioso (mitzvah, lett. un comandamento, la gioia di un’azione intrapresa in favore degli altri e della gloria di Dio) che può sostituire altri doveri religiosi (come l’offerta quotidiana al tempio, soprattutto quando quest’ultima diventa impraticabile, in seguito alla distruzione del Secondo tempio di Gerusalemme, sotto Tito nel 70 dC.). Tutti i Rabbini giudicheranno l’ospitalità, offerta ad un bisognoso, più importante del dono della presenza divina stessa, e questo perché Dio si manifesta nell’azione dell’accogliere!

Nella tradizione islamica, l’ospitalità, pur appartenendo al novero delle pratiche tradizionali, non è formalmente integrata nella Sharia (la legge islamica). La nozione alla base della pratica dell’accoglienza è più quella di idjāra (lett. protezione o prossimità), termine che rimanda a djār, vale a dire alla persona protetta e, più raramente, al protettore. Il termine, originariamente sociologico, assume un significato socio-religioso quando si collega la protezione assicurata dagli umani a quella di Dio: l’unico vero protettore (il walī). Se si privilegia il concetto di protezione divina rispetto a quello di ospitalità umana, nel contesto islamico si preferirà analogicamente parlare di “prossimità” invece che di “comunione” di un Dio che è « più prossimo (aqrab) all’uomo della sua stessa vena giugulare » (cfr. Sura L,16).

Dunque, l’ospitalità come imperativo religioso e come atto etico ad imitazione di ciò che Dio fa per gli uomini. Tutto questo però non dice ancora a sufficienza la dimensione sacra e teologale dell’atto ospitale evocata dalla Lettera agli Ebrei: « Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (13,2). E una consapevolezza condivisa da molte tradizioni religiose : l’uomo che accoglie l’ospite misterioso è lui stesso elevato all’altezza della gratuità divina ! Inoltre, non si sceglie di accogliere ma l’altro, il pellegrino, il bisognoso, ci vengono incontro strappandoci al nostro ripiegamento e rendendoci, di fatto, più umani. 

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