I Comandamenti

La rivelazione di Dio nell’Antico Testamento è sintetizzata dal popolo d’Israele per mezzo del termine Torah. Più che «legge» la Torah è l’«istruzione» e ancor più precisamente l’istruzione relativa al cammino, l’indicazione sulla via da prendere, la «via della vita».

Tale istruzione non può essere compresa unicamente analizzando il significato delle singole parole; occorre riferirsi alla storia, ovverosia alla vicenda vissuta da Mosè e dal popolo d’Israele a partire dal momento iniziale, la liberazione dalla «casa di schiavitù» in Egitto. In altre parole: all’origine v’è l’iniziativa esclusiva e gratuita di Dio che ha operato grandi cose nei confronti del suo popolo, liberandolo dalla condizione servile.

La “pretesa” di Dio è che Israele riconosca nell’esperienza dell’Esodo una «promessa» capace di suscitare un incondizionato consenso. La Torah, e le dieci parole in particolare, sarebbero fraintese se non si riconoscesse il loro carattere di promessa. E così spesso sono stati intesi i comandamenti, in senso quasi “mercenario”, qualcosa da adempiere per ottenere vantaggi. Invece solo riconoscendo il carattere di “istruzione” a proposito di quel cammino di cui Dio ha preso l’iniziativa e del quale egli solo conosce la meta, il popolo esprime il suo consenso alla promessa di Dio. Al di là del mare aperto dal Signore, infatti, non v’è la terra promessa ma il deserto. Solo a prezzo di riconoscere il carattere promettente della liberazione di Dio sarà possibile credere e dunque camminare nel deserto. Diversamente quel lungo itinerario sarà letto solo come una terribile condanna.

La tradizione ebraica ricorda in continuazione il nesso fra l’Esodo e l’obbedienza ai comandamenti. Tale obbedienza infatti non è secondaria ma certamente seconda all’esperienza della liberazione, del cammino nel deserto, del dono della manna, dell’acqua sgorgata dalla roccia.

Dalla professione di fede nel Dio unico sgorga la visione profondamente unitaria dei comandamenti. Afferma il Midrash: «I dieci comandamenti sono così strettamente connessi che la violazione di uno porta il più delle volte a trasgredirne un altro per tacere poi della corrispondenza che lega i primi cinque, incisi su una tavola, agli ultimi cinque, che occupano la seconda. Il primo comandamento, “Io sono il Signore Dio tuo”, risulta pertanto speculare al sesto, “non uccidere”, giacché l’assassino annienta l’immagine di Dio. Il secondo, “non avere altri dei oltre a me”, trova una corrispondenza nel settimo: “non commettere adulterio”, dal momento che l’infedeltà coniugale è un peccato grave quanto l’idolatria, che tradisce l’Eterno. Al terzo che dice “non nominare il nome del Signore tuo Dio invano” fa da contraltare l’ottavo, “non rubare”, perché il furto conduce inevitabilmente a giurare il falso. Il quarto invita a ricordare il giorno di sabato per santificarlo e il nono esorta a non attestare il falso contro il prossimo: ebbene, colui che adduce falsa testimonianza contro il prossimo è come se lo facesse contro il Signore, sostenendo che non ha creato il mondo in sei giorni mentre il settimo, il sabato, si è riposato. Il quinto comandamento dice infine: “onora tuo padre e tua madre” e trova eco nell’ultimo, “non desiderare la donna del tuo prossimo”, perché colui che si crogiola della lussuria genera figli che non onoreranno il loro vero padre e lo considereranno invece un estraneo».

È ancora molto diffusa l’idea che la relazione fra Antico e Nuovo Testamento sia da leggere per mezzo delle categorie figura-realtà, falso-vero, ombra-corpo. Una tale lettura giunge subito, in un modo o nell’altro, all’idea del superamento e della sostituzione: l’ombra è stata sostituita dalla realtà, Israele dalla Chiesa, i dodici figli di Giacobbe dagli Apostoli, la circoncisione dal Battesimo, la Pasqua antica dalla nuova. I comandamenti risultano così superati dalle beatitudini. Ma non v’è alcuna sostituzione: nella fede in Gesù riconosciuto come Messia e Figlio di Dio, i credenti partecipano alla benedizione promessa ad Abramo e hanno il dono della salvezza. In quest’ottica i comandamenti mantengono il loro valore all’interno delle radicali esigenze del vangelo. Al giovane ricco che si è accostato al Maestro, Gesù ha ricordato i comandamenti, per poi invitarlo alla sequela (cfr. Mt 19,16-22).

L’islam si pone su un piano differente, a motivo del Libro, il Corano. Quest’ultimo, infatti, non è tanto da paragonare con la Bibbia (quasi che l’uno e l’altra siano parimenti due “testimonianze” della “Parola di Dio”); il giusto parallelismo è Corano-Cristo, l’uno e l’altro – rispettivamente alla propria struttura religiosa – rappresentano il “segno assoluto”, il simbolo di un evento. Il Corano è infatti segno e sigillo di un’alleanza che stabilisce Dio come Signore e l’uomo come sottomesso. Chiarita questa essenziale differenza non mancano brani che alludono all’Antico Testamento (o addirittura lo citano). Celebre è la Sura I greggi: «Di’: Venite e vi dirò io che cosa il vostro Signore vi ha proibito. Egli vuole che non adoriate altri dei accanto a lui, che siate buoni con i genitori, che non uccidete i vostri figli col pretesto che siete poveri (provvederemo noi a voi e a loro), che vi teniate lontani dalle cose turpi esteriori e interiori e che non uccidiate gli uomini che Dio ha proibito di uccidere, se non per giusta causa. Ecco ciò che Dio vi comanda, nella speranza che ragioniate» (6,151).

don Matteo Crimella

Finestra per il Medioriente (Milano)

 

La Misericordia

Nelle mura orientali della città santa di Gerusalemme v’è una porta di epoca erodiana, murata forse nell’VIII secolo d.C. e chiamata dagli occidentali «la porta d’oro». In realtà questo nome è una storpiatura latina (aurea) dell’antico nome greco (horaia) che significa “bella”. Tuttavia per gli orientali il nome della porta è ben diverso: essa è sha’ar harahamim per gli ebrei e bab al-rahmeh per gli arabi (cioè porta della misericordia). Stando alla Mishnah (Middoth 1,3) quella porta era usata per la cerimonia della giovenca rossa (Nm 19,1-10), un rito per mezzo del quale si preparava un’acqua lustrale che purificava dall’impurità del contatto coi morti. I musulmani iniziarono a farsi seppellire nelle sue vicinanze perché il Corano stabilisce una relazione fra il giudizio finale e questa porta: «In quel giorno gli ipocriti e le ipocrite diranno a quelli che hanno creduto: “Aspettateci, che possiamo prendere un po’ della vostra luce!”; ma verrà loro risposto: “Tornate in terra: laggiù cercate luce!”. E tra loro verrà interposta una muraglia con una porta. All’interno ci sarà la misericordia, all’esterno, di fronte ad essa, il castigo» (Sura 57,13).

Nell’Antico Testamento la radice rhm originariamente designa il luogo dove il sentimento della misericordia veniva localizzato, ovverosia le viscere, le interiora. Ciò implica un forte elemento emozionale ed una profonda partecipazione dell’intera persona. Inoltre il verbo ha sempre come soggetto qualcuno che sta sopra e la sua azione si rivolge verso qualcuno che sta sotto. Allorché Dio si manifesta nella nube a Mosè afferma: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco d’amore e di fedeltà» (Es 34,6). Con queste parole inizia la proclamazione dei cosiddetti tredici attributi divini, ovverosia: il Signore, l’Eterno, Dio, pietoso, misericordioso, longanime, che abbonda in benevolenza, che abbonda in verità, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona il peccato, che perdona la colpa, che perdona la ribellione, che assolve. Rashi, il grande commentatore ebreo del Medioevo, scrive: «Quando Israele ricorda gli attributi divini sarà esaudito perché la sua misericordia è inesauribile». In Isaia poi, il paragone col grembo materno dice con rara intensità la forza della misericordia divina: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (49,15). La tradizione ebraica gli fa eco nella preghiera quotidiana del mattino, allorché si rivolge a Dio con queste parole: «Muoviti a misericordia e abbi pietà di un figlio che ti ama»!

Nel Nuovo Testamento è Luca l’evangelista che più di tutti ha rappresentato la misericordia di Dio in Gesù, al punto da essere chiamato scriba mansuetudinis Christi (scrittore della mitezza di Cristo). Gesù, anzitutto, non solo parla coi peccatori ma addirittura siede a mensa con loro (5,29; 15,2; 19,5), contravvenendo le regole dei sapienti (cfr. Sal 1,1) e suscitando le critiche di scribi e farisei. Parlando ai suoi oppositori, ai pubblicani e ai peccatori Gesù narra le tre parabole della misericordia (Lc 15), definite non a torto il cuore dell’intero Vangelo. Se il comportamento del pastore alla ricerca di una sola pecora perduta giunge al paradosso di lasciarne altre novantanove nel deserto, la donna che ha smarrito la sua dracma deve necessariamente ritrovarla in quanto la moneta è parte integrante della sua dote. La passione di Dio per un solo peccatore è davvero straordinaria, al punto che una simile dedizione e non altro provoca la conversione e la conseguente festa degli angeli in cielo. Ma è con la terza parabola (15,11-32) che si raggiunge l’acme. Con buona pace di molti lettori devoti, il figlio minore non torna a casa perché si è convertito ma unicamente perché ha la pancia vuota mentre i salariati di suo padre hanno pane in abbondanza. E pure di fronte alla corsa, all’abbraccio e al bacio del padre ripete esattamente le belle parole che aveva preparato. Ma la misericordia del padre non s’arresta: se quel figlio prodigo intendeva fare il servo, trasformando la relazione filiale in relazione di servitù, il genitore continua a considerarlo figlio amato e gli dona il vestito bello, l’anello e i calzari, manifestandogli la decisione di reintegrarlo proprio come figlio. E tuttavia non lontano v’è pure un altro figlio, il maggiore: vive in casa, lavora intensamente ma si considera uno schiavo. Come sopportare che per un fratello che ha fatto quel che ha fatto il padre abbia ordinato di ammazzare addirittura il vitello ingrassato? Il padre, che ha corso verso il minore, esce anche verso di lui: «bisognava far festa»! Da dove viene quel bisogno? Esso non trova altra spiegazione che nell’amore sino alla fine di Dio in Gesù. La dedizione del Nazzareno fino alla croce è ragione di misericordia, è causa di salvezza per tutti: «Oggi sarai con me nel paradiso» (23,43).

«Nel nome di Dio, clemente, misericordioso»: è questa la bàsmala, la formula di apertura del Corano e di ogni sua Sura. Allâh, al vertice dell’olimpo degli dei per i pagani, è l’unico vero Dio per i musulmani. Egli è rahmân (clemente) e rahîm (misericordioso). Dio è colui che esercita la sua misericordia nei confronti delle sue creature, ma insieme la misericordia è l’attributo permanente di Dio, qualcosa che ha a che fare con la sua natura divina. È questa certezza che conduce Al-Razi (morto nel 871) a dire: «Signore, non so pentirmi: perdonami senza pentimento! Mio Dio! Come potrei essere lieto, avendoti offeso? Ma come non sarei lieto, sapendo chi sei? Come potrei invocarti, io peccatore? Ma come non t’invocherei, sapendo che sei misericordioso?».

A Gerusalemme oltre la «porta della misericordia» v’è la spianata delle moschee, luogo sacro per l’Islam, laddove un tempo sorgeva il tempio di Salomone e dove v’era il santo dei santi. Entrando forse per quella porta Gesù ha concluso il suo cammino verso la città santa per salire sulla croce e donare la sua vita per il mondo. Ogni uomo, segnato dal peccato, proprio passando dalle porte della misericordia, sperimenta oggi che la salvezza di Dio lo raggiunge e lo sana, lo fa salire sul monte della sua presenza e gli dona la vita.

don Matteo Crimella

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