La Misericordia

Nelle mura orientali della città santa di Gerusalemme v’è una porta di epoca erodiana, murata forse nell’VIII secolo d.C. e chiamata dagli occidentali «la porta d’oro». In realtà questo nome è una storpiatura latina (aurea) dell’antico nome greco (horaia) che significa “bella”. Tuttavia per gli orientali il nome della porta è ben diverso: essa è sha’ar harahamim per gli ebrei e bab al-rahmeh per gli arabi (cioè porta della misericordia). Stando alla Mishnah (Middoth 1,3) quella porta era usata per la cerimonia della giovenca rossa (Nm 19,1-10), un rito per mezzo del quale si preparava un’acqua lustrale che purificava dall’impurità del contatto coi morti. I musulmani iniziarono a farsi seppellire nelle sue vicinanze perché il Corano stabilisce una relazione fra il giudizio finale e questa porta: «In quel giorno gli ipocriti e le ipocrite diranno a quelli che hanno creduto: “Aspettateci, che possiamo prendere un po’ della vostra luce!”; ma verrà loro risposto: “Tornate in terra: laggiù cercate luce!”. E tra loro verrà interposta una muraglia con una porta. All’interno ci sarà la misericordia, all’esterno, di fronte ad essa, il castigo» (Sura 57,13).

Nell’Antico Testamento la radice rhm originariamente designa il luogo dove il sentimento della misericordia veniva localizzato, ovverosia le viscere, le interiora. Ciò implica un forte elemento emozionale ed una profonda partecipazione dell’intera persona. Inoltre il verbo ha sempre come soggetto qualcuno che sta sopra e la sua azione si rivolge verso qualcuno che sta sotto. Allorché Dio si manifesta nella nube a Mosè afferma: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco d’amore e di fedeltà» (Es 34,6). Con queste parole inizia la proclamazione dei cosiddetti tredici attributi divini, ovverosia: il Signore, l’Eterno, Dio, pietoso, misericordioso, longanime, che abbonda in benevolenza, che abbonda in verità, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona il peccato, che perdona la colpa, che perdona la ribellione, che assolve. Rashi, il grande commentatore ebreo del Medioevo, scrive: «Quando Israele ricorda gli attributi divini sarà esaudito perché la sua misericordia è inesauribile». In Isaia poi, il paragone col grembo materno dice con rara intensità la forza della misericordia divina: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai» (49,15). La tradizione ebraica gli fa eco nella preghiera quotidiana del mattino, allorché si rivolge a Dio con queste parole: «Muoviti a misericordia e abbi pietà di un figlio che ti ama»!

Nel Nuovo Testamento è Luca l’evangelista che più di tutti ha rappresentato la misericordia di Dio in Gesù, al punto da essere chiamato scriba mansuetudinis Christi (scrittore della mitezza di Cristo). Gesù, anzitutto, non solo parla coi peccatori ma addirittura siede a mensa con loro (5,29; 15,2; 19,5), contravvenendo le regole dei sapienti (cfr. Sal 1,1) e suscitando le critiche di scribi e farisei. Parlando ai suoi oppositori, ai pubblicani e ai peccatori Gesù narra le tre parabole della misericordia (Lc 15), definite non a torto il cuore dell’intero Vangelo. Se il comportamento del pastore alla ricerca di una sola pecora perduta giunge al paradosso di lasciarne altre novantanove nel deserto, la donna che ha smarrito la sua dracma deve necessariamente ritrovarla in quanto la moneta è parte integrante della sua dote. La passione di Dio per un solo peccatore è davvero straordinaria, al punto che una simile dedizione e non altro provoca la conversione e la conseguente festa degli angeli in cielo. Ma è con la terza parabola (15,11-32) che si raggiunge l’acme. Con buona pace di molti lettori devoti, il figlio minore non torna a casa perché si è convertito ma unicamente perché ha la pancia vuota mentre i salariati di suo padre hanno pane in abbondanza. E pure di fronte alla corsa, all’abbraccio e al bacio del padre ripete esattamente le belle parole che aveva preparato. Ma la misericordia del padre non s’arresta: se quel figlio prodigo intendeva fare il servo, trasformando la relazione filiale in relazione di servitù, il genitore continua a considerarlo figlio amato e gli dona il vestito bello, l’anello e i calzari, manifestandogli la decisione di reintegrarlo proprio come figlio. E tuttavia non lontano v’è pure un altro figlio, il maggiore: vive in casa, lavora intensamente ma si considera uno schiavo. Come sopportare che per un fratello che ha fatto quel che ha fatto il padre abbia ordinato di ammazzare addirittura il vitello ingrassato? Il padre, che ha corso verso il minore, esce anche verso di lui: «bisognava far festa»! Da dove viene quel bisogno? Esso non trova altra spiegazione che nell’amore sino alla fine di Dio in Gesù. La dedizione del Nazzareno fino alla croce è ragione di misericordia, è causa di salvezza per tutti: «Oggi sarai con me nel paradiso» (23,43).

«Nel nome di Dio, clemente, misericordioso»: è questa la bàsmala, la formula di apertura del Corano e di ogni sua Sura. Allâh, al vertice dell’olimpo degli dei per i pagani, è l’unico vero Dio per i musulmani. Egli è rahmân (clemente) e rahîm (misericordioso). Dio è colui che esercita la sua misericordia nei confronti delle sue creature, ma insieme la misericordia è l’attributo permanente di Dio, qualcosa che ha a che fare con la sua natura divina. È questa certezza che conduce Al-Razi (morto nel 871) a dire: «Signore, non so pentirmi: perdonami senza pentimento! Mio Dio! Come potrei essere lieto, avendoti offeso? Ma come non sarei lieto, sapendo chi sei? Come potrei invocarti, io peccatore? Ma come non t’invocherei, sapendo che sei misericordioso?».

A Gerusalemme oltre la «porta della misericordia» v’è la spianata delle moschee, luogo sacro per l’Islam, laddove un tempo sorgeva il tempio di Salomone e dove v’era il santo dei santi. Entrando forse per quella porta Gesù ha concluso il suo cammino verso la città santa per salire sulla croce e donare la sua vita per il mondo. Ogni uomo, segnato dal peccato, proprio passando dalle porte della misericordia, sperimenta oggi che la salvezza di Dio lo raggiunge e lo sana, lo fa salire sul monte della sua presenza e gli dona la vita.

don Matteo Crimella

 

IL DIGIUNO

La pratica del digiuno è fenomeno ampiamente attestato in tutte le culture e civiltà antiche, interessando molti ambiti: dalla medicina alla spiritualità, dalla vita privata a quella sociale. Nella rivelazione biblica il Popolo di Dio lo conosce attraverso la legge sul Giorno dell’Espiazione (Lv 23) e vi fa ricorso in momenti cruciali della vita della nazione (Gdc 20,26). Altri quattro digiuni addizionali furono aggiunti dopo l’esilio babilonese (Zc 8,19). Il giudaismo previde anche la possibilità di digiuni volontari aggiuntivi, ad esempio il lunedì e il giovedì. Nel messaggio dei profeti risuona forte l’appello alla verità profonda della mortificazione: “Non piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?” (Is 58,6-7).

Nell’islam il digiuno del mese di Ramadan è il quarto pilastro della religione e comporta l’astinenza totale da cibo, bevande, fumo e rapporti sessuali dall’alba al tramonto di ciascuno dei 29 o 30 giorni del mese, ed è obbligatorio per i musulmani, uomini e donne, che abbiano raggiunto l’età idonea e siano fisicamente in grado. Il digiuno aiuta ad avvicinarsi a Dio, attraverso l’esperienza di una vita simile a quella degli angeli, poiché spinge a combattere le passioni e irrobustisce la forza di volontà. Per tutti è uno stimolo alla solidarietà con i poveri, poiché fa provare i morsi della fame patiti dagli indigenti. Secondo i musulmani Ramadan è il mese preferito da Dio: apre il paradiso, chiude l’inferno e imprigiona I demoni; incrementa la vita di preghiera, l’assiduità al luogo di culto e la recitazione del Corano. Nell’islam vi sono altri momenti di digiuno individuali, ad esempio quelli disposti per espiare un’infrazione o per adempiere a un voto, e altri volontari e periodici, nel corso del mese.

Nel cristianesimo «il digiuno e l’astinenza — insieme alla preghiera, all’elemosina e alle altre opere di carità — appartengono da sempre alla vita e alla prassi penitenziale della Chiesa: rispondono, infatti, al bisogno permanente del cristiano di conversione al regno di Dio, di richiesta di perdono per i peccati, di implorazione dell’aiuto divino, di rendimento di grazie e di lode al Padre». La nota pastorale dell’Episcopato italiano su Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza, precisa inoltre che “il digiuno dei cristiani trova il suo modello e il suo significato nuovo e originale in Gesù”, che senza imporre in modo esplicito ai suoi discepoli nessuna pratica particolare di digiuno e astinenza, ne ha ricordato con il suo esempio la necessità nella lotta contro il maligno (Mt 4), ne ha ribadito il valore essenzialmente interiore (Mt 6), lo ha orientato alla partecipazione del credente al suo mistero pasquale: “Verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo Sposo e allora digiuneranno” (Mc 2,20).

Per il cristiano la mortificazione non è dunque mai fine a se stessa né si configura come semplice strumento di controllo di sé, ma rappresenta la via necessaria per partecipare alla morte gloriosa di Cristo: in questo senso è stato particolarmente valorizzato nel monachesimo. Nella vita del credente raggiunge il suo vertice nel sacramento della Penitenza e della Riconciliazione e deve aprire a un nuovo impegno di coerenza personale e di carità comunitaria. In questo senso è proprio il crescente contatto con religioni e culture differenti che richiede ai battezzati di riscoprire e riaffermare con chiarezza l’originalità del digiuno e dell’astinenza cristiani. Solo questa riscoperta può rendere ricco e fruttuoso lo scambio con uomini di altre fedi. Secondo la disciplina penitenziale della Chiesa Cattolica, la legge del digiuno obbliga a fare un unico pasto durante la giornata (ma non proibisce una piccola quantità di cibo al mattino e alla sera); la legge dell’astinenza proibisce l’uso delle carni e di altri cibi e bevande costosi e ricercati. Il digiuno e l’astinenza devono essere osservati il Mercoledì delle Ceneri (o il primo venerdì di Quaresima per il rito ambrosiano) e il Venerdì della Passione e Morte del Signore. L’astinenza deve essere osservata in tutti e singoli venerdì di Quaresima, come anche —adattamenti permessi — negli altri venerdì dell’anno. Salvo ragioni di salute vi sono tenuti tutti i maggiorenni fino al sessantesimo anno d’età. Tale pratica può poi allargarsi ad altre circostanze, come la vigilia di eventi religiosi significativi (Confermazione, Ordinazione, Professione religiosa ecc.); feste e pellegrinaggi, ritiri spirituali, infine quelle circostanze civili ed ecclesiali dove si fa più impellente il ricorso a Dio.

Ignazio De Francesco

Piccola Famiglia dell’Annunziata

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