Questo Calendario vuole essere un aiuto ad affacciarsi con rispetto alla fede dell'altro, attraverso le feste che ne scandiscono i ritmi e gli eventi, un invito ad accogliere la preghiera dell'altro, così come Dio accoglie le preghiere che salgono a Lui da ogni angolo della terra.
LA CARITÀ
Ogni inizio di anno, in fondo, è un nuovo inizio. Ogni anno porta con sé tante attese, tanta speranza e tanti propositi.
Ma sarebbe impossibile seminare e vedere spuntare frutti di novità da un terreno che non fosse stato prima dissodato dalla coscienza del male commesso e irrigato dalla volontà di riparare a questo.
Non a caso, la tradizione ebraica parla di Rosh haShana (il capodanno religioso ebraico) e dei giorni successivi come di un tempo nel quale fare un bilancio dell’anno precedente e verificare se le azioni compiute sono state secondo i precetti di Dio. E anche gli ultimi giorni dell’anno sono caratterizzati da un forte senso penitenziale, definito dal suono dello shofar (corno dell’ariete) col quale al mattino si richiama ogni fedele a svegliarsi dal sonno dell’indifferenza e del peccato e a mettere la propria vita al cospetto del giudizio di Dio.
Perché tutto sia nuovo, allora, è necessario gettare via il vecchio e acquisire atteggiamenti e mentalità rinnovate. Tutti questi giorni, infatti, hanno come obbiettivo quello di suscitare nel cuore del credente la teshuva cioè il ritorno sulla strada di Dio. Tutto l’anno, dunque, dovrà essere orientato al compimento della volontà di Dio, che si esprime nell’osservanza dei precetti e che dà senso compiuto alla vita dell’uomo. E il senso compiuto dei precetti - ce lo dice Gesù - è la carità che, per questo, è ciò che dà compimento alla vita dell’uomo, a ogni suo giorno, a ogni suo sforzo, a ogni sua azione.
Quando pensiamo alla carità, abbiamo la percezione che essa sia una specifica virtù cristiana. Per alcuni versi ciò è vero ma la carità, come san Paolo la descrive nella lettera ai Corinzi, presume una radice di cui si deve tener conto: la radice ebraica.
La Tzedaka è nell’ebraismo la giustizia. Il concetto di giustizia sembra essere lontano dalla carità. Se prendiamo in considerazione la forma meno nobile della giustizia, ciò potrebbe anche essere vero. La giustizia, infatti, come ricorda Gesù nel Vangelo, può essere interpretata come spada da brandire contro chi riteniamo essere ingiusto. Ma se, al contrario, la comprendiamo nella maniera più corrispondente alla Scrittura, ci rendiamo conto che il giusto è “colui che fa la volontà di Dio”, e questa volontà corrisponde all’amore a Dio e agli altri.
Tzadic (giusto in ebraico) è un titolo di grande prestigio di cui anche san Giuseppe è insignito; gli tzadikim sono coloro che nella vita hanno vissuto la giustizia/carità, il giusto è colui che compie quegli atti in favore degli altri previsti dalla legge.
La tzedaka è un obbligo morale e religioso, e prevede che il 10% del proprio reddito (decima) sia destinato a opere benefiche o a persone in difficoltà. I giorni di feste religiose o private (come i matrimoni) sono occasioni nelle quali si deve fare tzedaka, e si destina una parte del pasto ai poveri perché anch’essi partecipino alla gioia di quella festa, perché nessuno in quell’occasione sia nella tristezza. Secondo il Talmud, infatti, il denaro tzedaka non è di colui che lo possiede ma appartiene a Dio che lo affida agli uomini perché possano provvedere alle necessità di coloro che hanno bisogno.
Mentre la più alta forma di carità, che nel lessico cristiano chiameremmo misericordia, è quella che nel contesto ebraico è definita ghemilut chassadim, cioè atti di amore gratuito. Questa mitzva (precetto religioso) non è legata a una misura (come la decima), ad un tempo prestabilito o ad una festa familiare (matrimonio, nascita di un figlio…), può essere esercitata sempre e senza che alcuno lo sappia. Ed è proprio questo ciò che rende i ghemilut chassadim atti di grande spessore spirituale: il fatto, cioè, che possano essere compiuti verso coloro che non potranno mai restituire il contraccambio. Rientrano in queste azioni il vestire gli ignudi, dare da mangiare agli affamati, seppellire i morti o visitare gli ammalati… azioni che hanno un ruolo centrale anche nel messaggioevangelico.
La differenza tra tzedaka e ghemilut chassadim risiede nel fatto che la prima può essere fatta solo ai poveri mentre i beneficiari dei ghemilut chassadim sono sia i poveri che i ricchi. Inoltre tzedaka può rivolgersi solo ai vivi mentre gli atti di “gentilezza amorevole” si possono compiere anche nei confronti dei morti, partecipando alla recita delle preghiere del kiddush e dell’Yizkor. Infine i ghemilut chassadim non sono rappresentati solo da elargizioni di denaro, come per tzedaka, ma anche atti di assistenza e di solidarietà nei confronti di coloro che li necessitano.
Dunque tzedaka e ghemilut chassadim si armonizzano: tzedaka ci ricorda che fare il bene verso gli altri è un precetto e ghemilut chassadim che quel bene non può avere solo la dimensione del dovere, delle misure o delle date stabilite.
Dall’armonizzazione dei due concetti si comprende meglio quello che dirà Gesù nel Vangelo quando affermerà: «Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate come io vi ho amato». Gesù è lo tzadik (il giusto) che compie l’atto ghemilut chassadim più alto: servire i propri nemici, cosciente del fatto che non c’è povertà maggiore di quella di colui che non si lascia amare da Dio.
Con la speranza di lasciarci servire dall’amore di Dio che si è manifestato in colui che ha dato la vita per noi vi auguro “l’shanah tovah techatemu ve tikatevu”, cioè “che il tuo nome possa essere inscritto e serbato [nel Libro della Vita] per un buon anno”.
don Fabio Fasciani,