Questo calendario vuole essere un aiuto ad affacciarsi con rispetto alla fede dell'altro attraverso le feste che ne scandiscono i ritmi e gli eventi, un invito ad accogliere la preghiera dell'altro così come Dio accoglie le preghiere che salgono a Lui da ogni angolo della terra.

L’ACCOGLENZA

p. Claudio Monge op

 

L’Oxford Dictionary l’aveva premiato come neologismo del 2013, lo Zingarelli, a distanza di un anno, lo certifica come vocabolo di uso comune per il 2015 che inizia. Stiamo parlando del termine selfie, usato dagli utenti dei social per indicare l’abitudine di posare davanti allo smartphone o ad una webcam, per un auto-scatto da pubblicare online. C’è chi l’ha definito l’ultimo altare alla vanità o anche l’estrema frontiera del narcisismo tecnologico. Indipendentemente dal fatto che ci sono anche i selfies di gruppo e che Narciso quando si specchia nello stagno è convinto di vedere un’altra persona e non se stesso (per questo si innamora), ci pare che questa moda dilagante esprima più una dimensione onanistica che narcisistica: il bisogno assoluto di apparire come forma dell’esistere che però prescinde dall’incontro con l’altro. Il farsi ritrarre da qualcun altro, implica già di per se stesso una forma di socialità, significa accettare di essere rappresentati attraverso lo sguardo altrui: premessa ad un incontro possibile e appello ad osare l’accoglienza. Questa “accoglienza”, nozione oggi fortemente contestata più che affermata nella sua stringente attualità esistenziale, è, in realtà, una sfida non solo economica o politica ma anche spirituale, in società complesse dalla difficile coabitazione. La stessa condizione permanente di “esodo esistenziale”, provocata dalla precarietà del vivere in tempi di crisi, suscita una domanda pressante: come conservare la speranza in tempi avversi? Sicuramente, questa speranza non può esistere se non è prima di tutto sostenuta dal riconoscimento di una dignità umana fondamentale, perché nessun essere umano, dal precario di un sistema economico perverso al migrante alla ricerca di un lido dove approdare, può essere genericamente ridotto alla “massa dei dannati senza volto della storia”, a un mero dato statistico. La “selfie cultura” tende a svuotare il peso esistenziale dell’altro riducendolo a semplice cornice, a presenza accidentale a supporto dell’affermazione di se stessi: ma senza l’altro io non sono! Ecco perché la pratica dell’accoglienza, prima di tutto, riorganizza in modo nuovo la stessa comprensione della nostra identità individuale, come ci ricorda fin dal suo incipit la Scrittura:  Dio fece uscire dall’Adam (che non è l’uomo come erroneamente tradotto, ma “il terrestre” che non è ancora né uomo né donna) la parte femminile, per darle, per differenziazione, una esistenza propria (della quale inizia a godere per la prima volta anche il maschio: dall’Adam all’Isch, distinto dall’Ishshâ; cfr. Gn 2, 18-25). L’Isch, per ritrovare la sua pienezza, la sua totalità, resistendo alla tentazione di riappropriarsi di colei che è ormai differente, dovrà uscire da sé e andare al suo incontro, offrendosi in dono ed accogliendo il dono libero dell’altro. L’altro, l’estraneo che spesso e volentieri è anche “straniero” e, in quanto tale, considerato come una minaccia quando non un vero e proprio nemico, non può scomparire dal nostro orizzonte e continuerà a sfidarci per un’accoglienza che sa opporsi ogni ostracismo pur rispettando anche le differenze. La tradizione ebraica ci ricorda che solo coltivando la memoria del nostro stesso essere «stranieri e di passaggio» (cfr. Gn 23,4; Es 23,9; Lv 19,34; Dt 10,19) possiamo praticare l’ospitalità come un dono gratuito da offrire, dopo aver tanto desiderato di beneficiare dell’accoglienza di Dio (« O Signore, chi dimorerà nella tua tenda? Chi abiterà sul tuo santo monte?... » ; Sal 15,1). Per un pio ebreo, l’accoglienza resta una istituzione morale (una Tzedakah, lett. rettitudine, equità e giustizia) e un’imperativo religioso (mitzvah, lett. un comandamento, la gioia di un’azione intrapresa in favore degli altri e della gloria di Dio) che può sostituire altri doveri religiosi (come l’offerta quotidiana al tempio, soprattutto quando quest’ultima diventa impraticabile, in seguito alla distruzione del Secondo tempio di Gerusalemme, sotto Tito nel 70 dC.). Tutti i Rabbini giudicheranno l’ospitalità, offerta ad un bisognoso, più importante del dono della presenza divina stessa, e questo perché Dio si manifesta nell’azione dell’accogliere!

Nella tradizione islamica, l’ospitalità, pur appartenendo al novero delle pratiche tradizionali, non è formalmente integrata nella Sharia (la legge islamica). La nozione alla base della pratica dell’accoglienza è più quella di idjāra (lett. protezione o prossimità), termine che rimanda a djār, vale a dire alla persona protetta e, più raramente, al protettore. Il termine, originariamente sociologico, assume un significato socio-religioso quando si collega la protezione assicurata dagli umani a quella di Dio: l’unico vero protettore (il walī). Se si privilegia il concetto di protezione divina rispetto a quello di ospitalità umana, nel contesto islamico si preferirà analogicamente parlare di “prossimità” invece che di “comunione” di un Dio che è « più prossimo (aqrab) all’uomo della sua stessa vena giugulare » (cfr. Sura L,16).

Dunque, l’ospitalità come imperativo religioso e come atto etico ad imitazione di ciò che Dio fa per gli uomini. Tutto questo però non dice ancora a sufficienza la dimensione sacra e teologale dell’atto ospitale evocata dalla Lettera agli Ebrei: « Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (13,2). E una consapevolezza condivisa da molte tradizioni religiose : l’uomo che accoglie l’ospite misterioso è lui stesso elevato all’altezza della gratuità divina ! Inoltre, non si sceglie di accogliere ma l’altro, il pellegrino, il bisognoso, ci vengono incontro strappandoci al nostro ripiegamento e rendendoci, di fatto, più umani. 

Questo calendario vuole essere un aiuto ad affacciarsi con rispetto alla fede dell'altro attraverso le feste che ne scandiscono i ritmi e gli eventi, un invito ad accogliere la preghiera dell'altro così come Dio accoglie le preghiere che salgono a Lui da ogni angolo della terra.

 

La Povertà

 

1. Hebraica

La sera di Pesach, allorché la famiglia si raduna intorno alla tavola per la solenne celebrazione del seder in cui si fa memoria della notte nella quale l’angelo del Signore colpì i primogeniti degli Egiziani, mentre Israele lasciava la terra della schiavitù, quella sera v’è anche questa tradizione: ad un certo punto bisogna aprire la porta di casa e lasciarla socchiusa per una buona mezzora. Chi potrebbe entrare? Forse Elia, il profeta che non è morto, ma è stato assunto su un carro di fuoco. Se il grande campione della fede d’Israele, l’intrepido difensore dell’unicità di Dio tornasse e vedesse la porta aperta, entrerebbe, prenderebbe posto, sorseggiando la coppa che porta il suo nome e che non manca mai sulla tavola. Forse però arriverà il Messia. Se egli giungesse proprio in quella sera e vedesse una lama di luce, busserebbe, si farebbe incontro e che onore per quella famiglia accogliere l’Unto del Signore. Più spesso però a intravedere la luce e a farsi avanti nelle belle famiglie del popolo d’Israele non è stato né Elia né il Messia ma semplicemente qualche povero: uomini soli, figli di Abramo senza casa, fratelli bisognosi. La porta è aperta, l’accoglienza è di rigore: nell’uomo povero che è giunto a condividere la gioia di Pesach v’è la presenza di Elia e del Messia.

2. Christiana

Fra le pagine più famose del Vangelo v’è indubbiamente il «Discorso della montagna» e, in particolare le «Beatitudini». Bisogna però essere onesti: questa pagina si rivela sempre abbastanza ostica. Chi di noi afferma: “Beati i poveri”? Siamo piuttosto pronti a dire: “Beati i ricchi”! Chi di noi sottoscrive: “Beati quelli che piangono”? Piuttosto amiamo dire: “Beati quelli che si divertono e se la spassano”! Le beatitudini sono puro vangelo, proclamazione della buona notizia che porta gioia, ma rimangono una scommessa, restano una parola che obbliga alla conversione. Vale la pena rileggere questa pagina (Matteo 5,1-12). «Beati i poveri in spirito». Chi sono i poveri in spirito? Sono coloro che non pretendono niente da Dio, quelli che non esigono nulla, quelli che non reclamano nessuno possesso dall’alto. Sono il contrario degli orgogliosi. Il povero è colui che davanti a Dio non approfitta di nulla perché sa che viene dalla terra (lo humus) e dunque è umile. Persone così sono nel pianto. Che cosa piangono? Non la disperazione, ma i propri peccati. I poveri in spirito conoscono Dio e proprio per questo motivo apprezzano la differenza fra i loro pensieri e quelli di Dio, fra i loro comportamenti e quelli di Dio. Costoro conoscono quanto è grande la loro distanza da Dio e per questo piangono i propri peccati. Chi sa il proprio peccato è mite, cioè umile. Ha percepito la santità di Dio, la sua grandezza. Comprende che la strada per arrivare a Dio è ancora molto lunga; si sa in cammino ma si sente pure distante. Anzi, più cammina e più vede avvicinarsi la cima della santità divina, più capisce di essere ben lungi da quel culmine. Un uomo così è affamato di giustizia, cioè affamato e assetato della giustificazione che proviene da Dio. In altre parole, un uomo così desidera essere salvato, anela con tutto il cuore alla salvezza che solo Dio può manifestare perché intuisce che proprio di quella ha bisogno. Al contempo, però, ha un immenso desiderio che vi sia giustizia in questo mondo. Le regole, infatti, che reggono questo mondo non sono improntate alla giustizia di Dio ma ai giochi più o meno loschi degli uomini. Chi è così ha due caratteristiche: la misericordia e il cuore puro. La misericordia (cioè donare il cuore al misero) viene proprio dall’esperienza di sentirsi peccatore perdonato da Dio, persona fragile e umile. L’uomo povero in spirito, sapendo quanto è grande la propria fragilità, non si scandalizza degli errori altrui ma è colmo di pietà, di comprensione, di misericordia, di perdono nei confronti degli altri. Nel peccato del fratello vede come in uno specchio la propria debolezza e conosce quanto questa fragilità sia umiliante e abbisogni solo di perdono divino e di umana comprensione. Insieme quest’uomo ha il cuore puro, desidera cioè compiere la volontà di Dio. Il cuore puro permette di vedere la bellezza nascosta che alberga nel cuore di un fratello. Quest’uomo accetta la differenza, apprezza l’alterità. Non è un ingenuo, non vive sopra le righe. Sa quanto il male fa male, ne soffre ma custodisce un cuore incontaminato, capace di misericordia, di perdono; è capace, cioè, di dare un’altra possibilità all’altro. Proprio per questa ragione chi è così è un operatore di pace. È l’unico atteggiamento esteriore di tutte le beatitudini. La pace, infatti, ha un prezzo e tale prezzo è la giustizia. Una persona simile, con una passione interiore così intensa e determinata, è perseguitata. La sua ostinata caparbietà nel bene, la sua volontà di non piegarsi alla mentalità comune e al pensiero dominante infastidiscono molti. Ecco le beatitudini: un itinerario interiore che assomiglia ad una catena d’oro. Ogni beatitudine è un anello della catena, di quell’unica preziosa catena. Non è un caso che la prima beatitudine contenga la stessa promessa dell’ultima: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» e «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». Le beatitudini sono una sola beatitudine.

3. Islamica     

La zakat, menzionata molte volte nel Corano, è un meccanismo attraverso il quale il musulmano dona ogni anno una parte della propria ricchezza ai poveri e ai bisognosi. La sadaqah, invece, è una forma di beneficienza volontaria per cui il musulmano dona una somma, facendo proprio il valore dell’eguaglianza sociale e il dovere di adoperarsi per una società più equa. Muhammad ha insegnato che ogni atto di generosità è un atto d’amore. Un hadith (tradizione profetica) tramandato da Al Bukhari e Muslim riferisce che il profeta disse ai suoi compagni: «Le porte che accedono al paradiso sono molte: glorificare Dio, adorarlo, affermarne l’unicità e la magnificenza, accogliere il bene e il lecito ed evitare il male e l’illecito, rimuovere ogni minaccia dal nostro cammino, curare gli afflitti, guidare alla luce colui che è cieco sul cammino della propria vita, mostrare a colui che lo cerca ciò di cui ha bisogno, alleviare le sofferenze degli oppressi, sostenere il debole con la forza delle proprie braccia. Tutte queste sono forme di elemosina e sono richieste come un dovere». La concezione della beneficienza non distingue fra donatori e beneficiari, deboli e forti, ricchi e poveri, ma si attiene alla convinzione che ognuno di essi abbia l’insita facoltà di fare del bene, a prescindere dalla propria condizione economica o sociale.

 

don Matteo Crimella

Finestra per il Medio Oriente (Milano - Roma)

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