Questo calendario vuole essere un aiuto ad affacciarsi con rispetto alla fede dell'altro attraverso le feste che ne scandiscono i ritmi e gli eventi, un invito ad accogliere la preghiera dell'altro così come Dio accoglie le preghiere che salgono a Lui da ogni angolo della terra.

 

La Povertà

 

1. Hebraica

La sera di Pesach, allorché la famiglia si raduna intorno alla tavola per la solenne celebrazione del seder in cui si fa memoria della notte nella quale l’angelo del Signore colpì i primogeniti degli Egiziani, mentre Israele lasciava la terra della schiavitù, quella sera v’è anche questa tradizione: ad un certo punto bisogna aprire la porta di casa e lasciarla socchiusa per una buona mezzora. Chi potrebbe entrare? Forse Elia, il profeta che non è morto, ma è stato assunto su un carro di fuoco. Se il grande campione della fede d’Israele, l’intrepido difensore dell’unicità di Dio tornasse e vedesse la porta aperta, entrerebbe, prenderebbe posto, sorseggiando la coppa che porta il suo nome e che non manca mai sulla tavola. Forse però arriverà il Messia. Se egli giungesse proprio in quella sera e vedesse una lama di luce, busserebbe, si farebbe incontro e che onore per quella famiglia accogliere l’Unto del Signore. Più spesso però a intravedere la luce e a farsi avanti nelle belle famiglie del popolo d’Israele non è stato né Elia né il Messia ma semplicemente qualche povero: uomini soli, figli di Abramo senza casa, fratelli bisognosi. La porta è aperta, l’accoglienza è di rigore: nell’uomo povero che è giunto a condividere la gioia di Pesach v’è la presenza di Elia e del Messia.

2. Christiana

Fra le pagine più famose del Vangelo v’è indubbiamente il «Discorso della montagna» e, in particolare le «Beatitudini». Bisogna però essere onesti: questa pagina si rivela sempre abbastanza ostica. Chi di noi afferma: “Beati i poveri”? Siamo piuttosto pronti a dire: “Beati i ricchi”! Chi di noi sottoscrive: “Beati quelli che piangono”? Piuttosto amiamo dire: “Beati quelli che si divertono e se la spassano”! Le beatitudini sono puro vangelo, proclamazione della buona notizia che porta gioia, ma rimangono una scommessa, restano una parola che obbliga alla conversione. Vale la pena rileggere questa pagina (Matteo 5,1-12). «Beati i poveri in spirito». Chi sono i poveri in spirito? Sono coloro che non pretendono niente da Dio, quelli che non esigono nulla, quelli che non reclamano nessuno possesso dall’alto. Sono il contrario degli orgogliosi. Il povero è colui che davanti a Dio non approfitta di nulla perché sa che viene dalla terra (lo humus) e dunque è umile. Persone così sono nel pianto. Che cosa piangono? Non la disperazione, ma i propri peccati. I poveri in spirito conoscono Dio e proprio per questo motivo apprezzano la differenza fra i loro pensieri e quelli di Dio, fra i loro comportamenti e quelli di Dio. Costoro conoscono quanto è grande la loro distanza da Dio e per questo piangono i propri peccati. Chi sa il proprio peccato è mite, cioè umile. Ha percepito la santità di Dio, la sua grandezza. Comprende che la strada per arrivare a Dio è ancora molto lunga; si sa in cammino ma si sente pure distante. Anzi, più cammina e più vede avvicinarsi la cima della santità divina, più capisce di essere ben lungi da quel culmine. Un uomo così è affamato di giustizia, cioè affamato e assetato della giustificazione che proviene da Dio. In altre parole, un uomo così desidera essere salvato, anela con tutto il cuore alla salvezza che solo Dio può manifestare perché intuisce che proprio di quella ha bisogno. Al contempo, però, ha un immenso desiderio che vi sia giustizia in questo mondo. Le regole, infatti, che reggono questo mondo non sono improntate alla giustizia di Dio ma ai giochi più o meno loschi degli uomini. Chi è così ha due caratteristiche: la misericordia e il cuore puro. La misericordia (cioè donare il cuore al misero) viene proprio dall’esperienza di sentirsi peccatore perdonato da Dio, persona fragile e umile. L’uomo povero in spirito, sapendo quanto è grande la propria fragilità, non si scandalizza degli errori altrui ma è colmo di pietà, di comprensione, di misericordia, di perdono nei confronti degli altri. Nel peccato del fratello vede come in uno specchio la propria debolezza e conosce quanto questa fragilità sia umiliante e abbisogni solo di perdono divino e di umana comprensione. Insieme quest’uomo ha il cuore puro, desidera cioè compiere la volontà di Dio. Il cuore puro permette di vedere la bellezza nascosta che alberga nel cuore di un fratello. Quest’uomo accetta la differenza, apprezza l’alterità. Non è un ingenuo, non vive sopra le righe. Sa quanto il male fa male, ne soffre ma custodisce un cuore incontaminato, capace di misericordia, di perdono; è capace, cioè, di dare un’altra possibilità all’altro. Proprio per questa ragione chi è così è un operatore di pace. È l’unico atteggiamento esteriore di tutte le beatitudini. La pace, infatti, ha un prezzo e tale prezzo è la giustizia. Una persona simile, con una passione interiore così intensa e determinata, è perseguitata. La sua ostinata caparbietà nel bene, la sua volontà di non piegarsi alla mentalità comune e al pensiero dominante infastidiscono molti. Ecco le beatitudini: un itinerario interiore che assomiglia ad una catena d’oro. Ogni beatitudine è un anello della catena, di quell’unica preziosa catena. Non è un caso che la prima beatitudine contenga la stessa promessa dell’ultima: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» e «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». Le beatitudini sono una sola beatitudine.

3. Islamica     

La zakat, menzionata molte volte nel Corano, è un meccanismo attraverso il quale il musulmano dona ogni anno una parte della propria ricchezza ai poveri e ai bisognosi. La sadaqah, invece, è una forma di beneficienza volontaria per cui il musulmano dona una somma, facendo proprio il valore dell’eguaglianza sociale e il dovere di adoperarsi per una società più equa. Muhammad ha insegnato che ogni atto di generosità è un atto d’amore. Un hadith (tradizione profetica) tramandato da Al Bukhari e Muslim riferisce che il profeta disse ai suoi compagni: «Le porte che accedono al paradiso sono molte: glorificare Dio, adorarlo, affermarne l’unicità e la magnificenza, accogliere il bene e il lecito ed evitare il male e l’illecito, rimuovere ogni minaccia dal nostro cammino, curare gli afflitti, guidare alla luce colui che è cieco sul cammino della propria vita, mostrare a colui che lo cerca ciò di cui ha bisogno, alleviare le sofferenze degli oppressi, sostenere il debole con la forza delle proprie braccia. Tutte queste sono forme di elemosina e sono richieste come un dovere». La concezione della beneficienza non distingue fra donatori e beneficiari, deboli e forti, ricchi e poveri, ma si attiene alla convinzione che ognuno di essi abbia l’insita facoltà di fare del bene, a prescindere dalla propria condizione economica o sociale.

 

don Matteo Crimella

Finestra per il Medio Oriente (Milano - Roma)

 

 

La preghiera di lode

Che cosa significa pregare i Salmi? Un celebre versetto del Salmo 61 afferma: «Possa abitare per sempre nella tua tenda, rifugiarmi nel nascondiglio delle tue ali» (v. 5). L’immagine delle “ali” indica la protezione: rifugiarsi nel nascondiglio delle ali è porsi sotto la protezione di Dio. L’immagine della “tenda”, invece, indica il tempio del Signore. Dunque l’orante esprime il desiderio di salire al tempio. Tuttavia il Salmo 61 è stato composto in un’epoca nella quale il tempio di Gerusalemme non esisteva più perché Nabucodonosor l’aveva distrutto. Come dunque era possibile salire al tempio e gustare la consolazione di Dio? Ecco l’intuizione dell’orante: attraverso la preghiera dei Salmi si entra nel tempio di Gerusalemme. Il libro del Salterio è la tenda dove Israele può incontrare il Signore in ogni momento. Così i Salmi diventano una specie di “santuario portatile” che in ogni luogo d’esilio permette di salire al tempio di Gerusalemme e sperimentare la protezione di Dio.

I Salmi non sono disposti a caso. Essi iniziano rammentando il mormorio della Legge (Sal 1,2) e si concludono con una solenne lode di Dio. Così si esprime il Salmo finale del Salterio:

1 Alleluia.                                                                                                                          

Lodate Dio nel suo santuario,

lodatelo nel firmamento della sua forza,

2 lodatelo nelle sue potenze,

lodatelo per la grandezza della sua forza.

3 Lodatelo con suono di corno                                                                                         

lodatelo con arpa e cetra,

4 lodatelo con tamburello e danza,

lodatelo con corde e flauto,

5 lodatelo con cembali sonori,

lodatelo con cembali squillanti.

6 La totalità di ciò che respira lodi Yah.                                                                          

Alleluia.

Incorniciato dal duplice “Alleluia” iniziale e finale, il testo si divide in due sezioni: la prima parte è tutta dominata da imperativi (vv. 1-5), l’ultimo versetto (v. 6) invece è caratterizzato da un verbo (“lodi”) che manifesta un desiderio, un auspicio, un sogno. Gli imperativi sono diretti, incalzanti, decisi. Sono dieci comandi potenti come le dieci parole creatrici di Dio (Gen 1), come le dieci parole (i comandamenti) affidate a Israele sul monte Sinai (Es 20; Dt 5). Si dice e si ripete (appunto per dieci volte) la necessità di lodare Dio, senza offrire alcuna motivazione. Si evoca uno spazio cultuale (il santuario), uno cosmico (il firmamento) ed uno storico-salvifico (Dio ha operato grandi cose). L’orante volutamente si esprime in modo ambiguo: si può infatti intendere la sua preghiera in senso locale (“Lodate Dio nel suo santuario”, etc.) ma pure in senso causale (“Lodate Dio a causa delsuo santuario”, etc.). Tale indeterminazione favorisce un bell’effetto di universalità: pur situando tutto nel tempio, l’orizzonte del Salmo si dilata e si proietta verso l’alto. La liturgia nel santuario di Gerusalemme diventa liturgia celeste.

Poi però l’accento si sposta dall’oggetto all’atto (v. 3), o meglio, alla strumentazione di cui deve disporre la lode, affidata non alla parola ma all’orchestra. Ci sono sette strumenti musicali, simbolo della totalità dei suoni. In realtà dietro ogni strumento si nasconde una categoria sociale. Il primo strumento è il “corno”, tipico dei sacerdoti (Gs 6,4; Ne 12,35.41; 1 Cr 15,24), usato per indire le grandi feste d’Israele e per proclamare la signoria del Signore (Sal 47,6; 98,6). L’arpa fissa e la cetra (cioè l’arpa portatile) sono rispettivamente gli strumenti dei leviti (Ne 12,27; 1 Cr 15,16; Sal 39,2). Il tamburello è il tipico strumento femminile, utilizzato da Miriam sorella di Mosè (Es 15,20), da Giuditta (Gdt 11,34), dalle donne festanti per la vittoria di Davide (1 Sam 18,6). Il resto del popolo partecipa con strumenti a corda (liuto), a fiato (flauto) e a percussione (cembali). Alla fine, per mezzo di un fortissimo (i cembali sono raddoppiati: quelli “sonori”, cioè suonati sfregando i due piatti di metallo; e quelli “squillanti”, ovverosia sbattuti sonoramente per far sgorgare l’acclamazione), si coinvolgono tutti gli strumenti ma ancora non siamo alla conclusione.

Frustrando un immaginabile ma scontato accordo finale in maggiore, l’ultimo versetto introduce un bemolle sorprendente, cioè tre novità. Anzitutto il nome divino Yah (una forma abbreviata per Yhwh) prende il posto di “Dio” (El): si passa cioè dal nome sacrale generico al nome storico-salvifico, abbreviato in forma laudativa. La frequentazione fiduciosa del nome divino invocato già dai primordi della storia (Gen 4,26) e rivelato a Mosè sul monte Sinai (Es 3,14) è il patrimonio più prezioso del Salterio. Il Salterio infatti è una lunga e preziosa istruzione (cioè una Torah in cinque libri) per apprendere ad invocare il nome del Signore. A tale nome nessun uomo si può abituare, né v’è ceratura che lo possa manipolare. In secondo luogo l’abbandono dell’imperativo (“lodate!”) e la scelta di una forma desiderativa (“lodi”),sollecita la libertà di ciascuno, chiede un’adesione del cuore, ma insieme aggiunge una connotazione che profila una promessa. Infine non uno strumento musicale ma un soggetto vivente è invitato alla lode: il termine ebraico nefesh indica il respiro umano, la vitalità (Gen 2,7; 7,22), la singola persona vivente (Dt 20,16). Un così marcato riferimento antropologico è enfatizzato pure dall’aggiunta di col (“tutti”, “la totalità di”) che allarga al massimo grado i soggetti della lode.  L’ultima parola del Salterio è pura lode, celebrazione della gloria di Dio, ringraziamento al Signore per il solo fatto che egli esiste.

Il libro che si era aperto con il mormorio dell’uomo che rumina giorno e notte la Torah (Sal 1,2), si chiude con un salto di qualità che trasporta dall’obbedienza alla lode. Il lettore, educato all’invocazione del nome del Signore da tutto il Salterio, ritrova questa stessa invocazione in perfetta coincidenza con il proprio respiro. Il compito dell’intero libro è condurre “la totalità di ciò che respira”alla lode di Yhwh, trasformando in canto ogni precedente preghiera.

don Matteo Crimella

Finestra per il Medio Oriente (Milano - Roma)

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